Una di queste è che le figure umane potrebbero trovare un ruolo e una posizione diversa, rispetto a quella che oggi siamo abituati a conoscere.
Quindi se, per ipotesi, venisse realizzata una macchina in grado di dare una risposta ineluttabilmente esatta al quesito legale e quindi fornire un responso virtualmente ineluttabile sul possibile esito di una controversia, teoricamente il ruolo del giurista si potrebbe spostare in un’area diversa da quella dell’elaborazione della risposta alla domanda. Magari, quella di saper porre la domanda giusta alla macchina che poi fornirà la risposta. Quindi, si preoccuperà che alla macchina siano forniti tutti gli elementi e i parametri più appropriati per generare la risposta attesa.
Oppure potrebbe spostarsi in quell’area di “formazione” della macchina legale, e quindi fornire o vigilare che vengano forniti alla macchina tutti i dati e le informazioni giuridiche necessarie per operare le sue valutazioni.
E poiché questa macchina, attenendoci a questa ipotesi, sarà in grado di provvedere con ineluttabile esattezza a emettere un verdetto che assumiamo “giusto” il ruolo del giudice magari potrebbe diventare quello di accertarsi che le parti non barino nel fornire alla macchina gli elementi necessari per rendere il verdetto e che i criteri di giudizio inseriti ed applicati dalla macchina rispondano ad equità, ragionevolezza, proporzionalità, non disciminazione, etc.
Tutto questo, tra l’altro, sembra in linea con i famosi cinque principi fissati dal CEPEJ – European Commission for the Efficiency of Justice (cioè la Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa, ovvero quell’organismo del CdE rappresentativo dei 47 paesi il cui scopo è testare e monitorare l’efficienza ed il funzionamento dei sistemi giudiziari europei) nella Carta Etica sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nei sistemi giudiziali: (i) Principio di rispetto dei diritti fondamentali; (ii) Principio di non discriminazione (iii) Principio di qualità e sicurezza; (iv) Principio di trasparenza, imparzialità ed equità (v) Principio di controllo dell’utilizzatore.
Ora, anche accettando l’idea che un futuro in cui le AI trovino un impiego massiccio in campo legale il ruolo dell’uomo si possa spostare nell’area della sola supervisione, ci sono anche altre considerazioni da fare. Soprattutto perché quando immaginiamo una giustizia amministrata con questi strumenti, apparentemente neutri ed infallibili, ci rappresentiamo un apparato che si limita ad applicare leggi e regole. Un mero esecutore di precetti.
Questa rappresentazione della giustizia, tuttavia, nella realtà pratica non esiste, perché, in barba a qualunque petizione di principio e al principio di separazione dei poteri, di fatto chi emette un verdetto spesso in una certa misura concorre alla produzione del diritto e ne altera il tessuto. La funzione giurisdizionale, cioè, spesso in concreto concorre alla creazione e al consolidamento delle regole.
Naturalmente questa misura varia a seconda dei sistemi legislativi e costituzionali. È certamente maggiore nei paesi di common law, dove il diritto si forma attraverso la decisione sui precedenti.
Ciò, tuttavia, vale anche nei paesi a diritto codificato, come l’Italia, la Francia, la Germania, etc. In questi sistemi, infatti, spesso l’interpretazione data con la decisione giudiziale talvolta forza o anche piega il diritto formale, lo completa quando ne riscontra vuoti e lacune, lo disattende e lo pone nel nulla quando ricorrono condizioni che lo pongono in contrasto con principi di rango superiore.
La funzione giurisdizionale, cioè, spesso, direttamente o indirettamente, finisce per invadere il campo della funzione regolatoria e questo può avvenire a diversi livelli.
Attenzione: non si vuole escludere che, in astratto, una macchina chiamata a produrre norme non sia in grado di farlo anche meglio dell’uomo. Non fosse altro che per il fatto che la storia è piena di pessimi legislatori umani. Per fare un esempio estremo, si pensi all’orribile esperienza dell’olocausto e alla pulizia etnica: si tratta di orrori che venivano supportati giuridicamente da sistemi legislativi basati su principi macroscopicamente disumani, che però furono creati ed imposti proprio da esseri umani.
L’incontro tra la produzione normativa e l’intelligenza artificiale
Il punto cruciale è un altro: siamo davvero sicuri di voler dare accesso alle macchine al processo di produzione normativa? E fino a che punto? E dobbiamo tenere presente che questo ingresso può avere luogo anche in modo “strisciante”, attraverso quell’uscio socchiuso della funzione giurisdizionale.
L’idea che le funzioni che possono essere esercitate dalle macchine possano rimanere relegate ad un ruolo meramente esecutivo, o al più ausiliario, rispetto all’opera e alla volizione dell’uomo, in forza di quegli sbarramenti etici e formali imposti dall’uomo (ad esempio, le leggi della robotica, di Asimov o, appunto, i principi elaborati in sede europea sull’uso dell’AI nei sistemi giudiziari) può risultare tranquillizzante.
Si tratta in questo caso di regole dettate direttamente dall’Uomo alla Macchina e rispondono in senso lato alla soddisfazione della vocazione esistenziale dell’uomo stesso. Sono tutte, cioè, in qualche modo conservative e funzionali allo sviluppo e alla preservazione dell’esistenza del genere umano.
Ed è qui che scatta il dilemma, se vogliamo, un po’ filosofico: se mai dovessimo consentire ad una entità non umana di entrare a pieno titolo nel processo di formazione normativa, posto che essa, proprio in quanto entità è dotata immanentemente di una sua vocazione esistenziale, cosa le impedirebbe di scrivere delle regole che non rispondono alla vocazione esistenziale dell’uomo?
Per fare un esempio estremo, se dovessimo porci il problema del sovrappopolamento e della scarsità delle risorse alimentari ed energetiche, a livello globale, in quanto uomini, fatte salve certe patologiche derive ideologiche, sul piano etico ripudieremmo come strumento risolutivo del problema soluzioni che postulano lo sterminio di massa o l’omicidio di esseri umani.
Lo stesso problema, visto con gli occhi di un’entità non umana, che potrebbe non riconoscere identici principi etici, potrebbe condurre alla soluzione dello sterminio di massa, magari sulla base di criteri selettivi volti ad eliminare i soggetti più deboli (proprio quelli che l’etica umana impone di preservare prioritariamente) come soluzione più ragionevole su un piano strettamente e freddamente logico.
Massimo Chiriatti, tra i massimi esperti di intelligenza artificiale in Italia, che in molti suoi scritti ha chiarito la sua visione sui limiti dell’intelligenza artificiale e sul ruolo di supervisione che l’uomo deve mantenere in modo ferreo nell’utilizzo di queste tecnologie nel suo “Incoscienza artificiale” afferma:
“C’è un punto molto importante da considerare: ogni previsione dell’IA è una valutazione quantitativa, mai qualitativa, mentre per noi umani una scelta non è quasi mai un semplice calcolo. Noi decidiamo in base a valori incommensurabili e quindi incomputabili. Siamo noi gli insegnanti delle macchine. Lo siamo implicitamente quando assimilano i dati che noi creiamo, quando costruiscono il modello e ci forniscono le risposte.
Lo siamo esplicitamente quando diamo loro istruzioni su come svolgere un lavoro. Per queste ragioni dobbiamo porre attenzione a come apprendono, perché nel farlo evolveranno”.
Al di là dell’esempio estremo appena fatto, quindi, se da un lato è velleitario ed illusorio opporsi allo sviluppo della tecnologia, dall’altro lato questo tipo di processo deve essere governato con la massima consapevolezza.
Oggi discutiamo dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulle professioni giuridiche, rispetto alle quali entrano in gioco situazioni e valori di estrema delicatezza e peculiarità legate alla sofisticazione intellettuale, alla creatività e a tutte quelle componenti che ci piace ricondurre all’impalpabile essenza dell’uomo.
Lo stesso tema, tuttavia, è destinato a generare un impatto su ampia scala sulle centinaia di lavori che le macchine in tempi brevissimi saranno in grado di eseguire come e meglio dell’uomo, a costi infinitamente più contenuti.
Dobbiamo sentirci minacciati da crypto e intelligenza artificiale (AI)?
Le proporzioni massive del tema ci dovrebbero portare a riflettere su ricadute che impatteranno sul mondo reale e sulla nostra capacità di leggere la realtà, poiché la visione sociale e politica del mondo del lavoro e dell’economia ne risulterà rivoluzionata.
Se è legittimo porsi una serie di interrogativi, rispetto al mondo delle professioni legali, occorre considerare che analoghi interrogativi andranno posti sul gran parte del mondo del lavoro.
Per noi quelli più immediati sono: “Che fine faranno gli uomini, giudici ed avvocati, che oggi esercitano quel ruolo e quelle funzioni che domani potrebbero essere svolti dalle macchine? Come si guadagneranno da vivere?”
Ma sul piano dell’interesse collettivo, ve ne sono ben altri: “Chi verserà i contributi previdenziali e chi fornirà alla collettività il gettito fiscale generato dai redditi di tutti gli operatori umane sostituite dalle macchine?” Ed ancora: “che fine faranno tutte quelle figure che concorrono allo svolgimento delle attività di questi operatori (assistenti, collaboratori, praticanti, etc.) e cosa succederà quando verrà meno anche il loro gettito contributivo e fiscale?”
Beh, questi interrogativi si pongono anche per tutte le altre categorie di lavori che potranno essere investite dalla rivoluzione robotica e digitale in un arco di tempo ancor più ridotto rispetto a quello che probabilmente interesserà gli operatori della giustizia.
Si prospettano scenari che potrebbero rendere superate le visioni sociologiche, economiche, antropologiche e politiche oggi conosciute: socialismo, liberismo, libertarismo, sovranismo, e via dicendo, perderebbero i loro fondamenti concettuali.
Se non tutto, molto, moltissimo andrebbe ripensato da zero.
Ma tornando al tema dell’AI in campo legale, la mia personale visione è che il ruolo dell’avvocato (per vocazione interprete non solo di norme, ma anche di fatti e, in certa misura, di uomini), non potrà limitarsi ad essere quello di migrare in una diversa regione del ciclo produttivo dei servizi legali.
La mia idea è che all’avvocato, e più in generale agli operatori del diritto, potrebbe essere riservato un ruolo più alto: cioè, quello di vigilare affinchè la consapevolezza nel governo dello sviluppo tecnologico sia sempre proporzionata ai reali scopi di benessere dell’umanità, opportunamente incanalata e, all’occorrenza, anche consapevolmente e ragionevolmente frenata.
C’è un famoso adagio cinese che recita: “quando soffia il vento del cambiamento, alcuni innalzano barriere, altri costruiscono mulini a vento”.
Ora, anche se mi piace pensare di potermi annoverare tra quelli che “quando soffia il vento del cambiamento” si buttano a costruire entusiasticamente mulini a vento, non vorrei arrivare ad un punto in cui i mulini a vento non abbiano più bisogno dell’uomo per esistere, poiché la loro esistenza è votata al bisogno di altri mulini a vento.
E se si arrivasse a questo, servirebbero forse all’uomo simili mulini a vento?
Ora, l’avvocato per definizione è colui che viene chiamato (ad vocatum) a difendere e perorare una causa. Ecco la sua causa: dovrà vigilare perché l’uomo mantenga saldamente il controllo delle regole e che le macchine restino ancorate al ruolo per il quale sono state create: lavorare al servizio dell’umanità.
E all’occorrenza dovrà battersi e lottare, affinchè così sia e così resti.
Lottare per il bene dell’umanità. Come Mazinga Zeta, nel famoso cartone animato giapponese, per chi se lo ricorda.
Suona bene, ma Mazinga Zeta, non era mica anche lui un robot?